SANTA BARBARA DI MOLAFA'
Di questa chiesa, annessa ad un fabbricato che pare coevo ad essa, non si è sicuri di fatto nemmeno dell'intitolazione: la tradizione, passata su stampa con la pubblicazione del volume "Le chiese nel verde" del 1988, indica come titolare Santa Barbara. Più che della chiesa, nelle pagine di Enrico Costa della sua opera intitolata "Sassari", si sono trovati alcuni passi riferiti all'edificio attiguo, un "opificio" polifunzionale del primo Ottocento. Enrico Costa scrisse (vol. III del Sassari): "<<anticamente la sansa, dopo la seconda pressatura, era da tutti rifiutata come materia esausta e inutile; e fu il Cav. Michele Delitala che nel 1820 stabilì il primo Lavatoio nella regione di Molafà, con utile dei proprietari, i quali poterono trarre lucro anche dalla sansa>> Così l'Angius ma parmi in errore". (p. 1501) Poi: "La prima fabbrica di sapone fu quella del Cav. Michele Delitala (1822) nella regione Molafà". (p. 1523) E ancora: "Lo stesso Angius rileva, che nel 1825 fu impiantata una fabbrica di marocchino, nella regione Molafà, del Cav. Michele Delitala; ed alla manifattura delle pelli attendevano tre operai francesi, fra i quali certo Monsieur Hos. Fin dall'inizio della produzione i suoi prodotti vennero lodati a Torino, ed il Governo era disposto a favorire ed incoraggiare la nuova industria; ma questa in seguito si dovette abbandonare non essendo i guadagni in relazione con le spese. Dopo il fallimento del Delitala la fabbrica fu riaperta e riattivata per cura del negoziante Valdettaro, che prescelse per capo fabbrica lo stesso Mosieur Hos. Nel 1848 lo stabilimento si reggeva ancora e con riputazione, ma non durò molti anni". (p. 1521)
Per chiarire, il marocchino è la pelle di capra conciata con sommaco, arbusto sempreverde che può raggiungere altezze fino a 3 metri e con foglie dal bordo seghettato, lunghe 10-20 centimetri. I tannini impiegati in tintoria e nel processo di concia delle pelli si estraggono dalla corteccia e dalle foglie della pianta.
La chiesa consiste in un'aula circolare, coperta da una volta emisferica con in chiave una botola. Delle paraste scanalate scandiscono la superficie verticale e una cornice modanata segna l'attacco della calotta. Due oculi ovali affiancano il portale, oggi murato in parte e ridotto a finestra, con inferriata: il portale, centinato, prospetta sul corso del rio Molafà ed è ipotizzabile che in antico un piccolo ponte desse accesso al piccolo tempio arrivando dalla sponda opposta vicina, ma l'attuale stato di abbandono e un roveto fittissimo non permette di verificare se tale struttura possa realmente esserci stata. Un vano rettangolare, voltato a botte, si inserisce in asse col portale sul lato opposto dell'aula circolare: era il presbiterio. Oggi sulla parete di fondo si apre una porta che comunica con l'edificio attiguo. Il pavimento pare di terra battuta, nell'aula si vede un affossamento nella parte a settentrione; nel presbiterio si distingue il basamento della mensa d'altare, rimossa e dispersa. All'esterno la chiesa ha la forma cilindrica ed un timpano modanato, plasmato sulla parete curva, crea la "facciata", mentre sulla copertura, pressoché piatta, oggi non si nota traccia di cornice sommitale nè di campanile, che se vi fu dovette essere a vela. Sino agli anni '90 del secolo scorso, si stagliava una croce in pietra. La chiesa dovrebbe essere a breve oggetto di intervento di restauro da parte della Soprintendenza B.A.P.P.S.A.E. sassarese.
Il toponimo Molafà (Mulafà in sassarese) forse deriva dal castigliano "Molasà", mutuato dal termine francese "molàsse", femminile. Nel Dizionario castigliano, a cura di Maria Moliner, si legge la seguente definizione per "Molàsa": "Arenisca calcàrea que se emplea en costrucciòn". Ossia pietra calcare da costruzione, di fatto costituente la valle chiamata Molafà ed impiegata ab antico nelle costruzioni di Sassari.
Scheda a cura di Alessandro Ponzeletti, specializzato in Studi Sardi - Indirizzo artistico-archeologico
La festa
Santa Barbara è ricordata il 4 dicembre ma al momento non avviene alcuna celebrazione essendo la chiesa sconsacrata, in attesa del restauro incipiente
Come si raggiunge
Attraversata la frazione di Caniga (chiese di Sant’Anatolia e San Domenico), proseguire in direzione Usini lungo la 127 ed arrivati alla stazione di Molafà, poco prima del 6° km, fermarsi nei pressi del terzo passaggio a livello e guardare indietro in direzione del fiume, per scorgere il rudere ormai preda della vegetazione. Da segnalare nell’area, alcune interessanti domus de janas.
Per chiarire, il marocchino è la pelle di capra conciata con sommaco, arbusto sempreverde che può raggiungere altezze fino a 3 metri e con foglie dal bordo seghettato, lunghe 10-20 centimetri. I tannini impiegati in tintoria e nel processo di concia delle pelli si estraggono dalla corteccia e dalle foglie della pianta.
La chiesa consiste in un'aula circolare, coperta da una volta emisferica con in chiave una botola. Delle paraste scanalate scandiscono la superficie verticale e una cornice modanata segna l'attacco della calotta. Due oculi ovali affiancano il portale, oggi murato in parte e ridotto a finestra, con inferriata: il portale, centinato, prospetta sul corso del rio Molafà ed è ipotizzabile che in antico un piccolo ponte desse accesso al piccolo tempio arrivando dalla sponda opposta vicina, ma l'attuale stato di abbandono e un roveto fittissimo non permette di verificare se tale struttura possa realmente esserci stata. Un vano rettangolare, voltato a botte, si inserisce in asse col portale sul lato opposto dell'aula circolare: era il presbiterio. Oggi sulla parete di fondo si apre una porta che comunica con l'edificio attiguo. Il pavimento pare di terra battuta, nell'aula si vede un affossamento nella parte a settentrione; nel presbiterio si distingue il basamento della mensa d'altare, rimossa e dispersa. All'esterno la chiesa ha la forma cilindrica ed un timpano modanato, plasmato sulla parete curva, crea la "facciata", mentre sulla copertura, pressoché piatta, oggi non si nota traccia di cornice sommitale nè di campanile, che se vi fu dovette essere a vela. Sino agli anni '90 del secolo scorso, si stagliava una croce in pietra. La chiesa dovrebbe essere a breve oggetto di intervento di restauro da parte della Soprintendenza B.A.P.P.S.A.E. sassarese.
Il toponimo Molafà (Mulafà in sassarese) forse deriva dal castigliano "Molasà", mutuato dal termine francese "molàsse", femminile. Nel Dizionario castigliano, a cura di Maria Moliner, si legge la seguente definizione per "Molàsa": "Arenisca calcàrea que se emplea en costrucciòn". Ossia pietra calcare da costruzione, di fatto costituente la valle chiamata Molafà ed impiegata ab antico nelle costruzioni di Sassari.
Scheda a cura di Alessandro Ponzeletti, specializzato in Studi Sardi - Indirizzo artistico-archeologico
La festa
Santa Barbara è ricordata il 4 dicembre ma al momento non avviene alcuna celebrazione essendo la chiesa sconsacrata, in attesa del restauro incipiente
Come si raggiunge
Attraversata la frazione di Caniga (chiese di Sant’Anatolia e San Domenico), proseguire in direzione Usini lungo la 127 ed arrivati alla stazione di Molafà, poco prima del 6° km, fermarsi nei pressi del terzo passaggio a livello e guardare indietro in direzione del fiume, per scorgere il rudere ormai preda della vegetazione. Da segnalare nell’area, alcune interessanti domus de janas.